Alunni delle elementari a Viganella negli anni ’50

I bambini: testimonianze

CHI PORTA I BAMBINI?
     Una volta i bambini erano tanti in una famiglia. Zia Francesca raccontava che quando è nata mia mamma, sua sorella, era rimasta proprio male: erano già tanti e ne arrivava un’altra. Giunta a casa da scuola non ha visto la mamma. Le dicono:
     “Va’ su a vedere che hai una bellissima sorellina”
     Ma lei era arrabbiata che non ci fosse la mamma… e poi era già grandicella, (con quattro fratelli più grandi) e più piccole di lei c’erano Anna e Maria; per giunta ne arrivava un’altra…
     “Perché sei arrabbiata?”
     “Perché… papà cucina sempre riso e pasta!”
     Una volta non si diceva assolutamente che la mamma aspettava un bambino. Non dicevano nulla e se li trovavano lì d’improvviso. Dicevano che i bambini li portava con il gerlo la sosa (1) dal lago di Antrona. Come mi erano antipatiche quelle brutte donne di Antrona!
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1) Gli abitanti di Antrona sono detti sös; probabilmentedalla      confinante valle di Saas in Svizzera.




LA  SCUOLA
     Quando eravamo bambini al mattino ci alzavamo, facevamo colazione e poi andavamo a scuola alle nove; a mezzogiorno uscivamo per pranzo e subito dopo pranzo andavamo a giocare… a far birichinate…
     Se era inverno andavamo a scivolare sulla neve dietro la scuola. Lì c’era un campo, di una certa Marì ’d Carlin, la chiamavano così. Ogni tanto veniva a farci correre. Avevamo una slitta fatta in casa con qualche asse e due scivoli tagliati con la falce; il problema era che portavamo i pantaloni corti e vi entrava la neve e di conseguenza le gambe diventavano blu.
     Poi alle due si tornava a scuola, bagnati come il letame. Quando tornavamo a scuola così infangati, sporchi, allora erano bacchettate sulle mani perché il maestro usava la bacchetta; non era come adesso.
     Ognuno portava qualche pezzo di legna per scaldare la scuola; allora era così. Alle quattro si usciva e invece di andare a fare i compiti andavamo a giocare un momento.

APPUNTAMENTO
     Noi di Cheggio, quando andavamo a scuola, passavamo da Sifrera. Lì c’era un muro lungo il sentiero che andava a Ruginenta e in quel muro una fessura. Allora, se eravamo noi le prime, mettevamo dentro un sasso per far sapere alle bambine di Ruginenta che noi eravamo già passate. Altrimenti, se erano loro le prime, lo mettevano loro. Noi guardavamo e andavamo a scuola tranquille. Ci davamo l’appuntamento così. Ci trovavamo poi sulla piazza della chiesa.
     I bambini di Cheggio andavano a scuola a Viganella e il primo a fare il sentiero, quando scendeva la neve, era il papà di Enrico Pirossetti. Apriva la strada in modo che si potesse passare. Noi prendevamo un ramo lungo e lo usavamo come freno perché allora avevamo gli zoccoli, nessuno aveva gli stivali, e arrivavamo a Sifrera.

FARE I COMPITI
     Da piccoli, quando alle quattro si usciva da scuola, andavamo alla Piana. Eravamo tanti bambini, non solo uno o due, eravamo una bella squadra. A metà strada ci sono delle piode che formano una sosta; allora ci fermavamo lì e facevamo i compiti; i più grandicelli insegnavano ai più piccoli. Fatti i nostri compiti si saliva all’alpe e andavamo a pascolare le mucche, poi si andava a cena. Al mattino ci alzavamo e tornavamo a scuola.
     Se invece non eravamo all’alpeggio, usciti da scuola alle quattro, posavamo le nostre cartelle e andavamo giù al Mulin (1) a prendere le capre. Le portavamo nella stalla, facevamo allattare i capretti. E poi andavamo a casa a fare i compiti; ma prima c’era il lavoro
     Invece d’inverno, stagione in cui non c’erano lavori, andavamo noi bambini nelle case a sgranare i fagioli. Allora c’erano sacchi pieni di fagioli. Lavoravamo magari fin verso le dieci. Ci davano qualcosa da mangiare, un biscotto o qualcos’altro ed eravamo tutti contenti.
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1) Località denominata Mulin. Si trova presso il ponte vecchio,     dove sorge anche la Cappella del racconto “MOMENTI DI     VITA - Nigra sum sed formosa” p. (12) 07.  Non vi sono     tracce di mulini, ma solo una baita. Le capre dovevano     pascolare oltre il ponte sull’Ovesca, sul versante sud, da     Ovigo, dove a causa della scarsa insolazione non vi sono     coltivazioni.

MUNGERE… FAR CALZA…
     A sei, sette anni si incominciava a mungere le capre. Anche a far calza, non cose grosse, solette; non eravamo tanto capaci, ma a fare solette ci insegnavano già a sei, sette anni. Avevamo solo quello da fare… Giochi non ne avevamo, a parte il gioco detto “settimana…” e d’altro… bambole… qualche bambola di pezza… Ma noi vedevamo quelli che lavoravano e ci veniva voglia di imitarli. Come per esempio ricamare: a noi piaceva ricamare, fare uncinetto o lavori simili. Abbiamo imparato quei lavori da piccole perché vedevamo gli adulti farli e allora li facevamo anche noi. Si faceva, si faceva e poi si disfaceva, ma intanto si faceva.

I UETER (Rosalba)
     Ina bota i uèter į eran tenci int ina familia. E lama Cechina la chintava che quand l’è nasìa la mi mama, l’ha pö vista tant invì quela mata, perché u g n era quenci! e l’era l’ültima. L’è rivà a ca da scola e l’ha mi’ truųù moma. I g han dič:
     “O  mata!  Nei si vega ch’u gh ì na pi bela  mateta!” (1)
     Ma lei l’era d’in rabià ch’u n’ gh era pi moma… e pö l’era ja ’n po’ grandeta e la vagheva che pus (2) a lei u gh era lama ’Neta e lama Ía e ades la n rivava in’auta…
     “Ma parqué u sì rabià…?”
     “Parqué… ul pa u fa semper riš e pasta!”
     T sei be me ch’i favan in bot, i gevan mai cun i uèter ch’u gniva in fratellino o na sorellina, ma gnanca! I gevan ingota fin quand i s ai truųavan lì. In bot i gevan che i uéter ai purtava la sosa dau lac d’Antruna cun la sciųéra. E mi a i vagheva d’in invì quei sosàsc…!
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1) u gh ì na pi bela mateta! Espressione che rende il senso del     superlativo assoluto. Nel Dialetto di Viganella manca l’uso     del superlativo assoluto. Le poche forme presenti sono da     considerarsi effetto del recente processo di italianizzazione.     Rispetto all’uso del superlativo assoluto il dialetto     preferisce ricorrere ad alcune espressioni particolari.
2) Rohlfs attesta che la preposizione latina post “con funzione     locativa e temporale si continua soltanto nell’italiano     antico” (Grammatica storica, cit., Sintassi e formazione delle     parole, p. 221). Tale forma si trova nel dialetto di Viganella     resa con pus a.

LA  SCOLA  (Italo)
     Quand ch’a seran uèter ul matin a lvavan si, a favan culazion e pö a navan a scola ai nou; a mešdì a pasavan fo a na a dišnà, e zübit pus dišnà a navan a jugà… a fa daspreši…
     Se l’era d’invern a navan a scariulàs, da dre da la scola; lì u gh era ul canvàl ad Marì ’d Carlin i g ciamavan; ogni tant la gniva a fan cura. E a gh evan in slitòt fač in ca, cun dui ès e dui slitùi tapéi ji cun la fausc; però ’l prublema l’era ch’a purtavan al brag chirt e u nava ient la neu, e da cul u fava gni al gaib blö dal freč.
     Pus ai do a turnavan na scola, bagnei me ul lamp. E ai do quand a turnavan a scola tit impautéi, brüz, indura bachetadi si l man, perché ul maester u tirava cun la bacheta: l’era migna me ades.
     E ognedin u purtava ’n po’ ’d legna rešgà, par argaudà la scola; indura l’era asuì. E pö ai quatar a pasavan fo e invece da na a fa i cümpit a navan a jugà ’n mument.

L’APUNTAMENTO  (Maria)
     Nui da Cheč, quand ch’a navan a scola, a rivavan a Sifrera. U gh era ’n mir ch’u nava a Rujanenta e lì in cul mir u gh era na šgrigna. Indura, s’a seran nui i prim a matevan ient in sas, par fa savé al matàn da Rujanenta, che nui a seran ja rivà, e sadanò si į eran al prim lur, i l matevan lur. Nui a vardavan e ’ndura a navan a scola tranquii. A s davan l’apuntamento cusì. A s truųavan pö fo si la piazza dla geša.
     Nui da Cheč a navan a scola in Viganela; ul prim pas ch’u gh era quand u gh era ji la neu, l’era ul pa ’d Rico Pirusét. U fava la veia e u fava pena ’d pas. Nui a ciapavan ina frasca, a sa slitavan cun quela frasca lì perché indura a gh evan si au zocul, u gh era incin cun i stivai, e a rivavan a Sifrera.


FA I CUMPIT     (Rina)
     Quand ch’a seran piscian, che a navan a scola, quand ai quater a pasavan fo, a navan a la Piana. A seran in tenci uèter, seran migna ma in o dui, seran be na bela squadreta. Quand ch’a seran a metà veia, u gh è dal piod, ch’i n pos, andura a s fermavan lì e a favan i cümpit, perché i grenč i mustravan ai piscian. Quand ch’į evan fač i nos cumpit a navan si e a matevan fo, a navan dre ’l vac, pö a navan a scena. Al matin a lvavan si, turnavan gni a scola.
     E invece s’a navan mi’ fo par į elp, quand l’era ai quater che nui a gnivan da scola, a matevan ji ’l cartel, e pö a navan jindà al mulin a to ’l crau. A gnivan in la casina a fa ità į öi, e pus a navan a ca, chi u nava a fa i cümpit; però prima l’era ul laùr…
     Invece quand l’era l’invern ch’a favan ingota, a navan tit i uèter inzema ’nt al ca a sfašulà ’l bajan, u gh era i sèc dal bajan. A navan, a sfašulavan al bajan magari tro indà da deš ùr, e pus i n davan qualcoša da mangià, dui biscot o qualcušeta, e a seran tit cuntent.







MUNJA… FA CAUZA…   (Rina)
     A ses o set agn u s manzava a munja ’l crau. Anca fa cauza, ne pö tant, sulet; l’è migna ch’a seran tanta bon, però sulet, i n mustravan ja a seš, set agn. A gh evan ma cul da fa… perché jög a g n evan migna, via setimana… e d’aut… bambul… na quai bambula ’d pezza… perché nui a veghevan qui ch’i lauravan, e n piaševa fal; to’ me ricamà… nui u n piaseva ricamà perché u s vegheva, cruscé o quela roba lì; nui į éma imparù quela roba lì da pigot, perché a veghevan i več ch’i l favan e ’ndura a l favan anca nui. A favan, a favan e squavan, però a l favan.

Ad un certo punto si esce dalla fanciullezza e si entra nell’adolescenza, preparazione all’età adulta. Sono i 14-15-16 anni. Per molti ragazzi questo passaggio dal mondo dei giochi al mondo del lavoro vero e proprio è stato segnato da una esperienza particolare: allontanarsi dalla propria famiglia per andare a servizio. Eccone due testimonianze molto realistiche ed anche toccanti.

UN PIANTO E VIA
     Ero solo una ragazzina; per Santa Maria è venuta una donna da Zonca, era ancora viva mamma (1), e mi ha detto di andare a Zonca come serva. Questa donna non era sposata e aveva una zia vecchia, inferma a letto e non poteva abbandonarla. E io sono andata.
     All’inizio ero all’alpeggio del Faiù, da sola. Dovevo fare tutto: i lavori di stalla, mungere, fare il formaggio, il burro, cucinare, preparare la polenta. C’erano altre donne lì vicino che mi aiutavano, ma intanto… quella donna era a Zonca con sua zia.
     Avevo due bestie, una mucca e… non ricordo se un vitello o un manzo…
     E poi sono andata a Zonca. Andavamo a prendere foglie nel bosco, lungo il sentiero che porta a Viganella. Io mi spingevo fino al Pilet, sai che c’è un dosso da cui si vede tutta Viganella; facevo un pianto e poi via, dovevo ritornare a Zonca con il gerlo di foglie da quella donna…
E’ poi morta sua zia e quella donna mi ha regalato un taglio di tela… (2) era un’abitudine così. Ho dovuto portarla a spalle per tutto il funerale, da Zonca a Seppiana. L’ho portata proprio malvolentieri! Ero solo una ragazzina…
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1) La protagonista è nata nel 1915; la mamma muore nel     gennaio del 1931. Quindi doveva avere al massimo 15     anni.
2) Di questa usanza se ne parla in “FESTE E RICORRENZE –     Usanze per i funerali”.

IN  PIANČ  E  VIA   (Anna)
     A sera  ma na pigota, e par Santa Maria l’è gnia na fémna da Zunca; l’a gh era ’ncù moma, e la m ha dič da na a Zunca par serva. Sta fémna l’era suleca e la gh eva na lama vegia, int ul leč e la la peva migna vantirà. E mi sun nacia.
     A sera al Faiù, da per mi, a gh eva da fa tit cos: da riva, munja, quagià, fa ’l bir; e anca fam da mangià, trušà pulenta. U gh era be dį aut féman lì a pröu ch’i m itavan, ma ’ntant… quela fémna l’era a Zunca con la so lama.
     A gh eva do besti, na vaca e… so pi se ’n vél o ’n manzet…
     E pö a sun nacia a Zunca. A navan a to föi e fa u ras int ul bosk, par la veia ch’la va a Viganela. Mi a rivava tro ’l Pilet, t sei be ch’u gh è in mutet e u s veg tita Viganela; a faševa ’n pianč, e pö via, turna na a Zunca cun quela fémna e cun ul sciųiron ad föi
     L’è pö morta la so lama, e quela fémna la m ha dač in’anda ’d tela… l’era la custima asuì. Į ho bì da purtala a spala tit ul fineral, da Zunca in Sepiana; a g n ho bi na döia! A sera ma na pigota…

Bambini di Rivera: il bambino in primo piano con la maglietta bianca è nato nel 1939
Seconda da destra: la protagonista dell'episodio all’età dei fatti
bambina = mata (pl. matàn)
bambino = mat; ha uèter come plurale
gaib: plurale di gamba.
Con la caduta della -a finale per il plurale, avviene anche un fenomeno di palatalizzazione e conseguente caduta della nasale. Analogamente si ossserva:
banca < baic; gianda < giaid
stanc < steic; bianc < bieic
dui: anche i numerali due e tre hanno il genere:
do matàn (f.), dui ueter (m.)
tre feman (f.), tri oman (m.)
séš = sette
sès = sassi
martél = martello (attrezzo)
martèl = martello (arbusto per      siepi)
vél = vitello
vèl = velo
ch a végn = che io venga
cavègn = cestini

il dialetto distingue chiaramente tra la "é" chiusa e la "è" aperta

i luoghi