La bambina in braccio alla mamma è nata nel maggio dell 1915. Nel 1916 e nel 1919 nasceranno altre due bambine.

I bambini:   introduzione

     I ricordi d’infanzia degli abitanti di Viganella possono presentare, malgrado una certa frammentarietà, una condizione di vita non molto diversa da quella di tutti i bambini nati e cresciuti nelle vallate alpine nei primi decenni del ‘900.
Per loro questa età è breve e già dopo i primissimi anni, tra i sei e gli otto anni, vengono ad assumere all’interno della vita familiare un ruolo produttivo. E’ un apporto commisurato alle loro forze e capacità, ma non per questo meno importante.
Scrive Daniele Jalla nella rivista ”L’Alpe”:
     “E’ un’infanzia fatta di fame, di freddo, di stenti, di lavoro, all’interno di una vita famigliare ai limiti della sussistenza, resa precaria dagli eventi – personali, naturali, e storici – che la condizionano, e che obbligano tutti a lavorare, senza riguardo per l’età e usando tutte le braccia presenti, ciascuna per quello che riesce a dare. Così i bambini sono costretti a diventare molto presto grandi, se definiamo l’età adulta con parametri moderni: obbligati fin da piccoli a badare a se stessi, a provvedere da soli, o quasi, al proprio sostentamento e contribuire per quanto possono alla sopravvivenza famigliare. Sfruttati, nella propria casa prima ancora di passare sotto padrone, nel quadro di un’economia di sopravvivenza al cui interno non c’è rispetto alcuno per i diritti dell’infanzia semplicemente perché se ne ignora l’esistenza” (1).
     Ascoltando però le testimonianze, più che la durezza e la precarietà della vita sottolineate dallo Jalla, emergono, attraverso i ricordi, momenti vissuti nella più assoluta normalità, non privi di gioia e di spensieratezza. Il fatto che il capofamiglia potesse trarre dal lavoro in fabbrica a Villadossola, anche se a duro prezzo, un salario fisso, evitò ai bambini di Viganella il ricorso a quelle forme di duro lavoro precoce, pericoloso, cui furono soggetti i bambini della vicina Valle Vigezzo e del Ticino divenuti spazzacamini (2).
     E’ ben presente lo spirito di gruppo con le sue regole e la sua compattezza, vivo nei giochi che si alternano alla scuola e al lavoro.
     Giochi a imitazione delle attività degli adulti: pascolare usando come immaginario bestiame le pigne delle conifere, stendere fili a sbalzo per far scivolare con rudimentali ganci di ferro piccoli fasci di legna o di erba; ma anche giochi in piena libertà: andare a caccia di rane e di ghiri, scivolare su rudimentali slittini, tuffarsi nelle fredde acque del torrente sfidando i divieti dei genitori, consapevoli di incorrere poi negli inevitabili castighi.
     La scuola scandisce le giornate, ma se ne parla in modo marginale, quasi come di un tempo sottratto al gioco e al lavoro.
Lavoro e gioco si intrecciano; mungere le capre, far succhiare i capretti, badare alle pecore, scortecciare le betulle, andare a prendere acqua sono attività che non sembrano pesare troppo, perché si svolgono stando tutti insieme e fanno sentire grandi e importanti.
     Si coglie inoltre, ascoltando i racconti, come il filtro della nostalgia per un’età lontana renda ogni fatica trascorsa meno aspra e meno pesante nel ricordo.
     Alle soglie dell’adolescenza, verso i tredici, quattordici anni, la vita cambia. Non bastano più quei lavori che contribuiscono a mandare avanti un’economia di pura sussistenza. Le famiglie sono numerose, le risorse estremamente scarse.
E’ giunto il momento in cui i ragazzi si allontanino da casa, i maschi per diventare per lo più “servitori” presso qualche pastore, le femmine per entrare come ”serve” in qualche famiglia.
     Come fa rilevare F. Giovannazzi in ”L’Alpe”, “Pur lavorando parecchio, i ragazzi raramente guadagnavano qualcosa, poiché si riteneva sufficiente come ricompensa il vitto e l’alloggio presso la famiglia che li ospitava: la famiglia d’origine riteneva vantaggioso il risparmio di derrate alimentari dovuto al fatto di avere ‘una bocca in meno da sfamare’…
     La lunga permanenza fuori casa generava nell’animo dei ragazzi una forte nostalgia. Così non furono infrequenti i rientri anticipati.”(3)
     Sono le stesse conclusioni che si possono trarre anche leggendo le testimonianze  di Anna (Un pianto e via) e di Severino (Servitore) che ricevette come ricompensa del lavoro  all’alpe di un’intera estate un formaggio e la risolatura di un paio di scarponi.
     Queste esperienze, rimaste pressoché immutate per secoli all’interno del mondo alpino, sono ormai scomparse, ma restano vive nella memoria degli ultimi protagonisti.
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1) D. Jalla, Il notabile e il poveruomo, in “L’Alpe. Bambini di montagna”, Ivrea, Priuli & Verlucca, editori, n° 8, giugno 2003, pp. 10-16. Sulle     condizioni di vita dei bambini si veda anche: “LA CASA – Cucina, stiva e camera da letto” p. 05/09; “SUGLI ALPEGGI – Il vestito e le     scarpe” p. 06/14; “LA DONNA – Lavori di donne” p. 08/07. 
2) Si veda al riguardo l’articolo di B. Mazzi, Guarda che ti mando a spazzacamino! in “L’Alpe. Bambini di montagna”, pp. 40-45.
3) F. Giovannazzi, Adulti si nasceva, in “L’Alpe. Bambini di montagna”, cit, pp. 34-39.