La casa: introduzione
Percorrendo il paese di Viganella e le sue frazioni, attraverso au stréč che si snodano tra le case di sasso, si ha l’impressione di tornare indietro nel tempo e di immergersi in un’epoca lontana. Il nucleo abitativo storico di questi paesi presenta un fascino e un interesse architettonico particolare. Si possono ancora osservare nei vari insediamenti i segni e i tratti caratterizzanti dell’epoca a cui appartengono. Si tratta del “tardo Medioevo edilizio alpino, durato fino agli inizi del XVII secolo” 1) .
Il dato viene confermato dalle numerose date che ancora oggi si possono osservare incise sugli architravi di pietra delle porte di alcune case. La maggior parte di esse ci riporta al ’600, mentre quelle più recenti arrivano fino agli inizi del ’700. Alcune dimore, prive di datazione, presentano delle caratteristiche che portano a fissarne la collocazione cronologica in un’epoca anteriore al ’600. Il dato caratterizzante, testimone della maggiore antichità, si identifica nel megalitismo evidente, in modo particolare, nei contorni trilitici delle porte, delimitate da tre enormi blocchi di pietra che formano i due stipiti e l’architrave, e negli angoli costituiti da conci di notevoli dimensioni.
L’orditura che sostiene le piode del tetto è interamente realizzata in legno ed è del tipo ”a puntoni” 2). Lungo la sommità dei muri longitudinali della casa corrono due travi (radis) su cui poggiano in senso trasversale altre travi. Sopra di esse, alle due estremità, sono incise delle scanalature (sciavat) dentro le quali vanno ad incunearsi le travi (canter) che unendosi al colmo con un incastro cosiddetto a mezzo legno, formano le capriate (cavrià), le quali a loro volta compongono le due falde del tetto. Le piode sono sostenute da pali orizzontali (tampiàr) appoggiati a pioli di legno conficcati nei canter, e sono posate con una pendenza minima tale da evitare che l’acqua scorra verso l’interno. Generalmente tra canter e radis sono fissati dei puntelli di legno, le cosiddette saette, per consolidare la capriata.
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1) L. Dematteis, Case contadine nelle valli dell’Ossola, Cusio e Verbano, in “quaderni di cultura alpina”, Ivrea, Priuli & Verlucca, editori, 1985, p. 14.
2) G. Buzzi, Atlante dell’edilizia rurale in Ticino. Valmaggia 1, Locarno, Armando Dadò Editore, 1997, p. 113.
CUCINA, ”STIVA” E CAMERA DA LETTO
La ca era tutta affumicata; lì nonna Maria cucinava nel camino; si stava lì a consumare i pasti finché non arrivava il freddo, ma il freddo vero! A volte arrivava (a casa nostra) il dottore e diceva:
“Non ho mai visto una casa così nera, così lucida...”
Veniva per vaccinarci contro la febbre maltese; era estate, indossava dei pantaloni chiari; in quella ca affumicata c’era una cassapanca dove si riponevano i sacchi della farina (da polenta) e il riso, sai a quei tempi si faceva la spesa all’ingrosso. La nonna, dopo aver cucinato sul camino, prendeva la pentola e la appoggiava su quella cassa senza mettere sotto niente, per cui era nera di fuliggine; arrivava il dottore, si sedeva lì e ripartiva con i pantaloni neri di fuliggine (anche loro)...! eh già!
Quando arrivava il freddo si andava sulla stiva. Era tutta rivestita di assi; c’era una stufa in ghisa a due fori, e faceva un gran caldo. Lì si stava tutto l’inverno; però non si cucinava; si mangiava e basta.
- “E perché non facevate da mangiare...”
Perché... perché... cucinava sempre sul camino, mai nella stiva. Le due stanze erano divise, sotto due tetti diversi; bisognava attraversare una piazzuola, percorrere un balcone per andare dalla ca alla stiva; portava il cibo (cucinato) e qui si pranzava. Finito il pranzo (o la cena) ritornava nella ca a rigovernare; la nonna lavava i piatti per terra, in un paiolo, perché il lavandino non c’era...
L’acqua dovevamo andare a prenderla fuori perché non c’era acqua corrente né nella ca né nella stiva; né acqua, né lavandino, niente. Andavamo a prenderla alla fontana con il banjul. Era un’asta di legno che si appoggiava sulla spalla con due secchi, uno davanti, uno dietro, e la portavamo a casa. Così si lavavano i piatti; l’acqua della rigovernatura, detta culobia, la si dava al maiale se c’era il maiale, perché non si buttava niente, tutto era prezioso; se non c’era il maiale la si buttava dalla finestra sul sentiero: dove andava andava; se passava qualcuno, poteva arrivargli in testa... a volte è capitato!
Per andare a dormire si usciva dalla stiva, si ripercorreva il balcone, si arrivava alla piazzuola dove c’era una scalinata che portava ad un altro balcone e si arrivava alla camera da letto, dove passava aria dappertutto; che freddo! La camera da letto era proprio fredda! Il soffitto era di assi con fessure tra uno e l’altro; e l’aria passava dappertutto; anche le porte erano piene di fessure; e il muro (della casa) non arrivava fino al tetto, si apriva quello che noi chiamavamo sfruntòn; e lì l’aria passava.
- “E’ come dormire fuori!”
Quasi...
- “E come scaldavate i letti?”
Noi con la buiota. Era come una bottiglia, ma di rame (piena di acqua calda). Altri avevano lo scaldaletto; un recipiente di rame e dentro vi mettevano la brace... col rischio di bruciarsi, perché era pericoloso.
Tutta la nostra vita era così...
CA, STIVA, CAMBRA (Maria Anna)
U gh era la ca che l’era tita fimà; e lì moma Ía (1) la fava da mangià lì int ul camin; moma Ía l’era la mi nona. E lì la fava da mangià e sa stava lì a mangià finché l’era mia propi freč freč. U rivava si u dutur e u geva:
“Non ho mai visto una casa così nera, così lucida...”
U gniva si fan (2) al puntür dla maltesa; u rivava si, l’era d’astà, cun si ’l brag in po’ ciar e lì ’n ca, lì dainò ch’u gh è sta ca fimà, la gh eva na casa che i matevan dent i sèc dla farina, du ris; qui temp là, t sei, i favan la speša a l’ingrös, e li u s satava ji lì... perché lei, la nona, la fava da mangià cun ul camin, la tirava ji la pèla o que ch’l’era dal camin , e la la (3) pujava si sta casa senza sot niente, e l’era semper imagnanà, no, u rivava si stu dutur u s setava ji lì u nava via cun... semper cun la braga negra, tita magnanà! e già!
Dopo quand u fava pisei freč a navan indà là si la stiva. L’era tüta (4) fudrà ’n legn cun dent ul furnet a dui böč ch’la fava ’n caud! in caud! E lì a stavan tit l’invern, però fa da mangià mai lì, solo mangiare e basta.
“E perché non facevate da mangiare...”
Perché... perché... la fava semper da mangià là int ul camin, la fava mai da mangià lì. U gh era la ca ch’l’era divisa... un altro tetto comunque; pö u gh era la piazza, ch’i g ciamavan (5), e la sporta e pö u gh era la stiva lì; la purtava là ’l mangià e a mangiavan là. Pö quand į evan finì da mangià turna na in la ca lavà ji; ji a bas, cun in pariöl, perché ’d lavandin u g n era mia... (6)
L’acqua a la navan to, u g n era mia ’n ca, né ’n ca dainò che la fava da mangià, né si la stiva, né lavandin né niente. E la navan to a la funtana cun ul banjul. Ul banjul l’era ’n legn ch’a purtavan si la spala cun au (7) sidel, ina davanti l’auta da dre, e la purtavan a ca. Lavà ji, u s lavava ji i pièt; l’acqua ch’a druavan lavà ji, la s ciamava la culobia e g la davan al pörc, quand i gh evan ul pörc, perché u nava migna trašà niente, u nava tegna tit da cönč... e s’u gh era migna ’l pörc i la bitavan fo ’n la veia, ’nò (8) ch’la nava la nava; pasava in quaidin u capitava ch’la rivava ji pa la testa... a quaidin l’è capitù, eh!
Par na ’nt u leč a turnavan na via da la stiva, a turnavan traversà tita la sporta; na là si la piazza u gh era na scala na si...(9) na scala... na scàrpia... nui a g ciamavan la scàrpia; na si, pö u gh era in’auta sporta na lì si la cambra ch’u pasava aria dapartüt... in freč! La cambra l’era fregia, ma fregia tant! perché u gh era ul plafòn da sura ch’u gh era al fesür da ’n as a l’aut; u pasava aria dapartit; al port l’istes, u pasava aria. E ’l mir u nava mia fin si al teč; u gh era ul sfruntòn, i g ciamavan, e lì l’aria la pasava.
“E’ come dormire fuori!”
Quasi...
“E come scaldavate i letti?”
Nui cun la buiota. La buiota l’era tipo na bottiglia in rame... d’aràm. E sednò u gh era do qui ch’i gh evan ul scaldaleč; l’era anca cul lì in coso ’n ram, ch’i g metevan dent (10) la brasca... anca da brišàs perché l’era periculus eh!
Tita la nosta vita l’era lì...
Le stoviglie da tavolo erano di legno. Il vino per lo più era bevuto da tutti i commensali da un unico boccale ("ul mez")
sfrunton
Convenzioni grafiche per la lettura del dialetto:
-c finale:
-c = c dura di cane
-č = c dolce di cena
-sc finali
-sc = come in "scena"
-sk = come in "schiena"
-sč = come in "scentrato"
š = s dolce di "rosa"
s = s dura di "sala"
j = come nel francese "joie"
ö = come il gruppo francese "eu"
ü = in francese "u"
banjul:
dal latino "baiulare = portare; nella sezione "la donna", si troverà il termine "bajalòn" della stessa etimologia
scala - scàrpia:
Il fenomeno della italianizzazione è sempre più forte. L'interlocutrice si rende conto di non usare un termine dialettale e si corregge.
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1) Nel dialetto di Viganella il termine moma significa mamma. Seguito da nome proprio invece significa nonna. Moma Ia è nonna Maria. Lo stesso vale per il termine pa che può significare quindi sia papà che nonno.
2) ’nò è abbreviazioe di ainò (dove).
3) fan = farci. Come per l’italiano i pronomi personali sia complemento oggetto che di termine assumono la forma enclitica con infinito e l’imperativo (non si trova nel dialetto il gerundio). Mentre in italiano si ha la costruzione verbo di movimento + a + infinito (veniva a farci) nel dialetto di Viganella si trova verbo di movimento + infinito, senza, quindi, la preposizione (u gniva fan).
4) la la pujava = lei la appoggiava. Il primo la è il soggetto atono; il secondo la è il pronome complemento oggetto.
5) Rohlfs afferma che la i esito di Ū latina “appare nel dialetto ossolano” (Grammatica storica, cit, fonetica, p. 60). Tale osservazione trova riscontro nel dialetto di Viganella. Nel recente processo di italianizzazione del dialetto la i esito di Ū latina si sta perdendo e si tende a sostituirla con una una ü in analogia con la u dell’italiano.
6) i g ciamavan = la chiamavano. In questa accezione il verbo “chiamare” è sempre usato nella forma intransitiva; g è pronome personale di forma proclitica complemento di termine.
7) u g n era migna = non ce n’era; n è pronome personale complemento di specificazione.
Per quanto riguarda il pronome personale complemento di specificazione “in posizione atona” attesta Rohlfs “sono di uso comune forme che derivano da inde” che generalmente si è “conservato soltanto in forme ridotte, il cui sviluppo può essere di due tipi: ora de, ora ne (en, n)” (Grammatica storica, cit., Morfologia, p. 165).
8) L’articolo determinativo femminile singolare è la, plurale al; diventa au se il nome che segue inizia per consonante l- s- z- r- e talvolta anche davati a consonante iniziale t-.
9) Nel dialetto di Viganella non si trovano i verbi che corrispondono all’italiano ”entrare, uscire, scendere, salire, precedere, seguire”. Essi sono resi con i verbi na (andare) o gni (venire) con le preposizioni dvent, dentro, fo, fuori, ji, giù, si, su, inài, davanti, dre, dietro.
10) ch’i g metevan ient, letteralmente “che ci mettevano dentro”. Rohlfs attesta che il pronome relativo semplice che (ch’) viene usato anche nei casi indiretti, in forma di complemento, senza essere preceduto dalla preposizione propria (Grammatica storica, cit., Morfologia, p. 190). Tale uso si trova anche del dialetto di Viganella dove non esistono forme corrispondenti all’italiano ”cui”, ”il quale”.